Sono passati quasi tre decenni da quando il virus della rabbia è fuoriuscito da un laboratorio costringendo tutta la Gran Bretagna a vivere in quarantena. Un gruppo di sopravvissuti vive su una piccola isola collegata alla terraferma da un’unica strada rialzata ed estremamente protetta. Quando uno di questi lascia l’isola per una missione diretta nel profondo della terraferma, scoprirà segreti, meraviglie e orrori che hanno mutato non solo gli infetti ma anche gli altri sopravvissuti.
Il regista Danny Boyle e lo sceneggiatore Alex Garland ci riportano tra gli zombi e riprendono in mano la loro storia riuscendo a non tradire lo spirito di un tempo e di una scelta stilistica ma aggiungendo molto a livello tematico e (per fortuna) non stravolgendone il senso.
“28 giorni dopo” era caratterizzato da un’immagine e una grana volutamente grezzo e sporca che ricordava i tempi ormai andati delle VHS. Danny Boyle portava in scena uno stile iperfrenetico con molte aggiunte autoriali che regalavano una regia originale e molto personale. Da questo suo marchio ne ha fatto un vero e proprio stile che ha poi riproposto in tanti altri film con inevitabili risultati alterni. Qui ecco che vengono riproposti gli stessi capi saldi tra zombie che corrono ma anche un senso di famiglia, agguati frenetici ma anche desolazione in campo lungo. Per quanto la regia risulti sempre attiva e i momenti action non mancano di tenere alta la tensione, sono altri i risvolti che davvero lasciano il segno tra padri che sanno esserlo solo in un senso andando a tradire la fiducia con quel senso di rabbia che sovrasta l’unicità umana.
Ecco quindi che addentrandoci sempre più nel suo essere survival-horror capiamo davvero cosa Boyle e Garland vogliono dare a questo nome e genere come definizione. Siamo nel mezzo di un mondo post-apocalittico soprattutto nella sua estetica e dove le parole “memento mori” e “memento amori” prendono forma sempre più lungo il percorso del giovane protagonista per cercare di salvare la madre. Si arriva a tutto questo tramite pericoli che hanno il passo a volte lento, a volte veloce degli infetti ma la consapevolezza e la pace interiore a cui si arriva ne giustifica ogni passaggio per concludersi, per una volta, senza necessariamente alzare l’asticella dello spettacolo.
Proprio per questo e per altri motivi “28 anni dopo” potrebbe spiazzare quasi scontentare il pubblico perché possiede una caratteristica che pochi riescono a dimostrare: il coraggio.
Il regista stravolge completamente alcuni aspetti dell’originale soprattutto nel passo e in quel classico mantra dove il seguito deve essere sempre più…tutto del precedente. Boyle non rende il film facile da seguire, omogeneo negli standard e lineare nella gestione. Inoltre i nomi altisonanti del cast (Jodie Comer, Ralph Fiennes e Aaron-Taylor Johnson) sono personaggi fugaci che accompagnano il giovane Spyke lungo il percorso e hanno la funzione di essere simbolico di qualcos’altro ma il vero protagonista è il giovanissimo Alfie Williams al suo primo ruolo da protagonista in assoluto. Il film poi non vuole essere costruito come la capacità di un singolo o di un gruppo a qualcosa di più grande, più veloce o frenetico come invece aveva fatto il seguito del 2007. Qui siamo di fronte ad un film dilatato nei tempi e nei modi, nervoso solo quando è necessario per scappare da un pericolo e che arriva al suo centro tramite fasi di maturazione e consapevolezza di sé.
Andrea Arcuri