Fuggendo dall’Europa del dopoguerra, l’architetto visionario László Toth arriva in America con l’obiettivo di ricostruire la sua vita, il suo lavoro e il suo matrimonio con la moglie Erzsébet, dopo essere stati separati durante la guerra.
“The Brutalist” basa molto il suo movimento e le sue intenzioni sulla natura dell’arte che espone in modi differenti. Possiamo definire la pellicola come uno studio della durata di 3 ore e mezza che lascia alla fine molto su cui riflettere.
Nulla di sbagliato si può dire sulla parte tecnica a partire dal regista Brady Corbet che già aveva fatto vedere la sua bravura riguardo l’estetica con il recedente “Vox Lux” per dedicare una menzione speciale verso la fotografia accurata di Lol Crawley e la colonna sonora sempre presente e precisa nel trasmettere le emozioni di Daniel Blumberg.
Il tempo scandito è volutamente di stampo epico senza però dare mai un preciso giudizio sulle parti in campo ma mostrando passaggi anche storici importanti. Verso la fine il tutto sembra mutare e in più occasioni e passaggi il film sembra vagare troppo perdendo quel focus che aveva guadagnato così fortemente. Proprio quando è il momento di esprimere i suoi concetti ed esplicitare certe accuse, ecco che tutto si fa pedante e autoritario. Purtroppo per quanto siamo d’accordo che un’affermazione che viene detta nel film, ” la destinazione è più importante della meta”, sappiamo bene che nel cinema quello che spesso rimane è proprio il finale.
A volte sembra che il regista cerchi disperatamente di creare un prodotto memorabile spesso gridando le sue verità ma a volte dimenticandosi di alcuni passaggi. Si perché una certa natura egocentrica e disfunzionale dello stesso protagonista a volte sfugge e il pubblico fatica anche se l’interpretazione di Adrien Brody ne copre alcuni buchi così da trasmettere quel personaggio enorme che la sceneggiatura vuole trasmettere.
Rimane un film ostico per il pubblico non solo per la sua lunghezza ma anche per il suo linguaggio così altisonante a volte sfuggevole ma soprattutto per i suoi passaggi non così lineari che non si collegano a dovere. Non è un problema di sceneggiatura che segue la storia in modo classico ma alcuni comportamenti dei personaggi, Toth su tutti, mutano in maniera troppo repentina eppure il tempo per accompagnare o esplicitare tali comportamenti c’era.
Il regista vuole quindi lavorare d’estetica e la bellezza dell’architettura riesce a trasmetterla totalmente. Gli è mancato solo un maggior focus su aspetti che forse possiamo considerare di minor importanza ma che servono per far presa sul pubblico.
Andrea Arcuri