La morte in mano – Ottessa Moshfegh. Recensione

1 Ott, 2020

La morte in mano – Ottessa Moshfegh

 

Il libro si presenta interessante, in quanto narrato con una voce narrante in prima persona. Non è, soprattutto in questo caso, un espediente furbo, quanto un modo per coinvolgere maggiormente nella storia chi legge. Quindi, fin dalle prime pagine, è possibile seguire il flusso di pensieri di Vesta, anziana signora che regge i fili di tutta la trama. Ci si rende subito conto della sua solitudine (è rimasta vedova da poco) che lei ha saputo colmare per lo più con la compagnia di un cane, descritto alla stregua di un essere che vive in simbiosi con la sua padrona.

Non mancano nemmeno alcuni pensieri rivolti da lei al marito, da poco estinto, un po’ per una più che comprensibile nostalgia, un po’ perché lui era capace di trarsi d’impaccio da certe situazioni.

Sembra una cronaca di ordinaria quotidianità, finché tutto non si tinge di atmosfere gialle, grazie ad un misterioso bigliettino rinvenuto dalla donna in una delle sue consuete passeggiate con il cane.

E’ qui che la donna sente accendersi qualcosa che la stimola ad improvvisarsi detective e a palesare al lettore i suoi procedimenti mentali per venire a capo della faccenda. Per questo motivo sente una nuova linfa vitale, nuovi stimoli che possono allontanarla dalla vuota routine che caratterizza il suo vivere

Seguendo le pagine, il lettore percorre una strada che a poco a poco si trasforma in una spirale sempre più pericolosa da cui sembra difficile fuggire. Perché a un certo punto la piega della trama prende altri imprevedibili aspetti, non ultimo il fatto che si confondano i piani oggettivi…

La tecnica dell’Io-narrante interno è di grande presa perché porta subito in mezzo al contesto. Il ‘pensare ad alta voce’ di Vesta è veramente molto credibile, spontaneo, aderente alla realtà.

Il problema è che si arriva alla fine di “La morte in mano” senza sapere di preciso cosa ci sia rimasto in mano. Se da un lato questo è positivo perché stimola la mente del lettore a incastrare i pezzi, dall’altro non aiuta perché i pezzi da unire sono troppo pochi e il ‘know-how’ per poterlo fare sembra incompleto.

Rimane nel complesso un titolo che non soddisfa pienamente: è come se nell’ingranaggio mancasse quel certo numero di viti che permetterebbe all’ingranaggio stesso di funzionare con più resa.

Enrico Redaelli per GlobalStorytelling